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Siria e archeologi. Non solo polemiche, anche silenzioso aiuto umanitario

18 Aprile 2017

 
Dopo le polemiche fra archeologi, l’aiuto ai profughi siriani è ciò che li distingue

 

 

 

 

 

Questo articolo stava per essere pubblicato, come seconda parte di quello intitolato Siria. Archeologi europei: querelle e bon ton alla griglia. Perché mai? , del 23 febbraio scorso, il giorno in cui, il 4 aprile, un centro abitato fu colpito dagli effetti dovuti all’uso di armamento chimico (Khan Sheikhun, provincia di Idlib).

Effetti dovuti alla ricaduta indiretta provocata dall’esplosone di un deposito di munizioni colpito o perché direttamente raggiunti da una bomba appositamente sganciata. Questo non si sa.

Nell’un caso o nell’altro, le vittime sono state colpite da un aggressivo a base di agenti chimici letali. Certo non gas nervini. Qui l’impreparazione e l’imprevidenza professionale dei giornalisti, quasi generale e quasi peculiarità atavica della categoria in fatto di conflitti armamenti tecnologie, volenti o nolenti risulta essere un tutt’uno con le fonti di disinformazione che ci speculano. Per fortuna, nel Vicino Oriente, tranne la più che probabile eccezione di Israele che è anche potenza nucleare, nessun attore possiede o ha mai posseduto i gas nervini, men che mai prodotto, neppure Saddam Hussein.

Non è però il caso di disquisire sulle diverse tipologie di armamenti chimici. Diciamo soltanto che se fosse stata utilizzata una sia pur piccola quantità di gas nervino i morti sarebbero stati molte centinaia, a dir poco, se non miglia, e con effetti quasi subitanei.

Non potrà che essere una commissione internazionale in ambito ONU a dovere fare luce sul gravissimo episodio, e quindi individuare i responsabili: gli aviatori siriani o i miliziani dell’Isis o un terzo attore, fra i tanti ivi presenti. Non dovrebbero certo fare parte della commissione scienziati, tecnici, medici, militari, diplomatici dei Paesi aggressori e propalatori e fomentatori di campagne di sistematica alterazione degli avvenimenti, palesi e meno palesi (USA, UK, Francia, Turchia, Arabia Saudita e dinastie della penisola arabica) e quei tanti Paesi che per le mene della Casa Bianca e degli strumenti della sua diplomazia hanno partecipato direttamente o indirettamente alla “crociata liberale” degli USA, compresi i Paesi dell’Unione Europea, salvo specifiche eccezioni; e neppure Russia, Iran e Paesi che hanno apertamente appoggiato la Siria (pare che non ce ne dovrebbero essere altri, visto che la quasi totalità dei Paesi musulmani è sunnita).

La platea delle Nazioni presenti all’ONU che a nostro modesto parere saranno in grado di assicurare una condizione di credibile terzietà e che perciò potrebbero accedere in questa Commissione quindi si restringe in misura esorbitante.

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Stavamo per pubblicare questo articolo, dicevamo, in riferimento a quanto già pubblicato, in considerazione di quanto era accaduto nell’ambito della comunità internazionale degli archeologi a causa (pretesto) del viaggio di alcuni archeologi occidentali a Damasco in qualità di ospiti del legittimo governo per affrontare il problema delle nuove distruzioni arrecate al patrimonio archeologico dai terroristi dell’Isis. Contro questo viaggio si era scatenato il più che fazioso e furibondo attacco dell’archeologo belga Lebeau (“collaborazionista” della Casa Bianca per sua obliqua ammissisone, ovvero l’accusa mossa che gli si ritorce contro), il quale così si conquistava l’attenzione della stampa internazionale.

In conseguenza di ciò, molti archeologi si sono trovati stretti nella morsa dell’enorme reattività emotiva scatenata nell’opinione pubblica a causa del coincidente attacco in grande stile portato nel merito dalla diplomazia americana e dai media di supporto, da un lato, e della coraggiosa difesa delle proprie coerenti scelte operata dagli archeologi che ivi erano andati o che ne avevano condiviso la scelta.

Una non meno sofferta, dolorosa e coerente scelta di campo veniva però fatta da altri archeologi i quali, pur non condividendo termini toni finalità strumentali dell’archeologo belga, ritenevano inopportuno quel viaggi ì visto che i soldati del regime di Damasco si erano macchiati e si stavano macchiando di gravi crimini per i ripetuti attacchi contro scuole e ospedali.

Anche qui, a nostro modesto parere, però qualcosa non rispondeva alla realtà delle cose, giacché la tipologia del conflitto (prevalentemente con carattere di guerriglia e di terrorismo e non di battaglie aperte; conflitto in cui i guerriglieri “liberatori”, filoamericani-sauditi più volte sono stati a spalla con quelli dell’Isis) che presentava uno spaccato chiarissimo: i ribelli “liberatori” combattevano dai quartieri delle città da loro controllati mischiandosi sempre alla popolazione civile e prendendola apertamente in ostaggio.

Questo è un dato incontrovertibile ma che non risultava e ancora non risulta chiaro a gran parte dell’opinione pubblica, vista l’angolazione di gran parte dell’informazione che viene diffusa pure in Europa, quasi del tutto uniformata all’impianto propagandistico di USA, UK, Francia, i tre partner occidentali dell’aggressione, o meramente appiattita all’esigenza della generalizzante semplificazione.

Quindi è ben comprensibile che nel giudizio circa l’inopportunità di accogliere l’invito del governo di Assad sia pesato e pesi ancora questo aspetto, il cui decisivo, formidabile ruolo si riversa a cascate su tutta la cronologia del conflitto e sui suoi momenti più tragici (i massacri avvenuti in scuole e ospedali da dove al contempo operavano reparti combattenti dei ribelli). In tale guisa, perfino le famiglie dei guerriglieri erano diventate ostaggio, perché impossibilitate a fuggire dai quartieri isolati e circondati dall’esercito regolare.

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La pubblicazione di questo articolo, come indispensabile sviluppo e conclusione del precedente, stava per avvenire e oggi avviene perché, da una veloce ricognizione attraverso Google, avevamo constatato che la feroce polemica sui mass media per fortuna si era totalmente sopita. Una grande cosa. Essa probabilmente avrà e ancora ha degli strascichi, ma nell’ambito ristretto e riservato dei circoli degli archeologi.

Il terribile conflitto siriano, nato con i più grotteschi e criminali propositi e espressione della più spietata applicazione dei dettami della strategia indiretta in epoca di “asimmetrie” geopolitiche, ha distrutto un Paese molto, molto più piccolo della Libia ma con una popolazione quintupla. Un Paese in cui il regime, certamente fortemente autoritario, rappresentava quasi un distillato alchemico atto a fare vivere entro un delicato equilibrio il ginepraio delle componenti religiose e etniche. Un regime peraltro che per molti decenni ha mandato molte centinaia di migliaia di studenti e di studentesse a studiare nel Regno Unito e in Francia. Un qualcosa, insomma, socialmente culturalmente giuridicamente politicamente di irrafrontabile con le dinastie della penisola arabica e con le condizioni dei loro sudditi, ad iniziare da quelle delle donne e dei non sunniti.

Un Paese e una guerra non convenzionale da cui è fuggito un quinto della popolazione, non volendo essa identificarsi né nelle scellerate, distruttrici e mercenarie bande dei “liberatori” né nel regime di Assad (per odio, per non condivisione, per scelta interessata, per sottrarsi a vendette, per salvarsi semplicemente la vita) indicano l’ulteriore disastro umanitario provocato dalla maggiore potenza militare che è però economicamente, monetariamente e geo-politicamente traballante. La strategia dei think tank del neo-neo colonialismo USA non è più in grado di gestire l’eredità anglo-francese di fine ‘800 primi ‘900: preferisce da quasi quattro decenni operare con il disseminare destabilizzazioni e crisi regionali molto profonde anziché affrontare conflitti aperti.

Queste proliferazioni e continue spiralizzazioni  nei loro obiettivi inconfessabili e di fatto hanno mirato non di meno a circondare l’orizzonte europeo.

Nel ritornare al quadro del conflitto siriano, non possono farci dimenticare alcuni importanti tratti di altruismo e di fraterna umanità.

Ci riferiamo a quanto, in silenzio, diversi orientalisti italiani e stranieri direttamente legati per le  loro campagne di scavi  da un profondo rapporto con il popolo siriano, hanno fatto e stanno facendo nel dare aiuto, anche a Roma, a famiglie di profughi.

Questo non può ricompensare nessuno per i misfatti compiuti e ancora in atto, quanto aiutare a capire come sia stato oltremodo doloroso per costoro essersi trovati coinvolti in una diatriba non voluta, non cercata, che talora è venuta perfino a incidere nella viva carne dei rapporti professionali e amicali durati tutta una vita.

A tutti questi archeologi, conosciuti e non conosciuti, va il nostro apprezzamento e il nostro plauso.

Al di là delle scelte individuali da loro fatte nel merito della dirompente querelle, per avere agito con elevata e integerrima dignità professionale e etica, e per l’aiuto donato fraternamente ai profughi.

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